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Festival Cinema Venezia 2009: recensioni film, interviste

 
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La retromarcia del cinema italiano

di Marco Alfieri e Giulia Crivelli

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01 settembre 2009

Dopo un decennio di crescita, a spese principalmente degli americani, la quota di mercato dei film italiani è tornata a scendere. E lo ha fatto in modo molto brusco: dal 1° gennaio al 26 luglio, cioè nella seconda parte della stagione 2008-2009, i film italiani hanno assorbito il 22,6% dei biglietti venduti, contro il 32% dello stesso periodo della stagione 2007-2008. Si pensi che in Francia i film locali assorbono circa il 40% del mercato e il dato è una doccia fredda proprio perché arriva dopo anni di miglioramenti: secondo i dati Anica, l'associazione delle imprese audiovisive, nel 2001 la quota di spettatori dei film italiani era stata del 19,28%, passata al 24,76% nel 2006, per arrivare al 32% del 2008. Ad attrarre il maggior numero di spettatori sono naturalmente i film americani, con circa il 60% della quota di mercato nel 2008, mentre le restanti quote divise tra film europei e di altri paesi.

I motivi delle débàcle italiana, di cui si discute alla vigilia della Mostra di Venezia, sono due, secondo Riccardo Tozzi, presidente dell'Anica e della casa di produzione Cattleya: «In cima alla classifica dei dieci film più visti tra il 1° gennaio 2008 e il 30 agosto 2009 c'è Madagascar 2, uno dei più sofisticati cartoni animati mai prodotti. Non possiamo pensare entrare in competizione con gli americani, né per i film animati né per i film con grandi effetti speciali. Però potremmo trovare spazio grazie ad altri fattori che fanno la qualità di un film, come la sceneggiatura o il montaggio. E qui veniamo al vero motivo del calo di quota di mercato – conclude Tozzi –. Negli ultimi due anni abbiamo sottovalutato le chiusure delle sale urbane, pensando che i multiplex avrebbero comunque ospitato film italiani, oltre ai blockbuster americani. Errore». Insomma se il cinema italiano ancora tiene al botteghino, è praticamente grazie ai cinepanettoni e a qualche film di comici nostrani o di grandi autori sempre più residuali. «In realtà la crisi del cinema italiano è un tormentone che si trascina da almeno vent'anni» ragiona Domenico Procacci, presidente della casa di produzione Fandango, intervenendo alla tre giorni di Vedrò, il network di quarantenni animato da Enrico Letta, Giulia Bongiorno, Annamaria Artoni e Angelino Alfano. «L'offerta di cinema – spiega Procacci – è per definizione ciclica, legata a un parco talenti che in Italia è giocoforza limitato. Però, attenzione a misurare tutto sul passo breve della singola stagione. L'anno scorso, dopo il successo del Il Divo o Gomorra, sono stati molti a parlare di primavera del cinema italiano. E poi dal punto di vista artistico il nostro non è un cinema in crisi, anzi. Stiamo consolidando, anche all'estero, una certa identità ormai autonomizzata e sganciata dal confronto coi mostri sacri del passato.»

Ma sarà un rinascimento a metà finchè «prevarrà la iper dipendenza dalla politica», si scalda Procacci. «Purtroppo in Italia non esiste un vero mercato cinematografico perché tutto è in mano sostanzialmente a due broadcaster. Non ci sono regole eguali e trasparenti. Contemporaneamente, vengono tagliati i fondi pubblici al settore. E non è assistenzialismo, il mio. Ci sono prodotti di grande successo come Caos calmo, o Gomorra, o Il Divo che senza contributi pubblici non sarebbero nemmeno nati.»
Naturalmente la mancanza di una riforma nei canali di finanziamento della cultura non nasconde difetti e debolezze nell'offerta, nei target di mercato, nella scrittura e sceneggiatura dei soggetti cinematografici. Ad ammetterlo è ad esempio il regista Mimmo Calopresti, sempre a Vedrò. «Reputo un grande errore del cinema italiano tagliarsi fuori dal mondo del cartoon e dell'animazione per bambini – dice – perché rappresenta un grande pubblico potenziale che, se scoprisse la magia del cinema, poi verrebbe a vedere anche un film d'autore. E poi si fa troppo poca ricerca nel cinema italiano. C'è poca formazione, nelle scuole attoriali e nelle stesse università. Il risultato è una capacità creativa bassa»

01 settembre 2009
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